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Francesca Pietracci
ARTE E POLITICA
Il lavoro di Claudio Di Carlo è un lavoro "politico" e lo è
stato fin dal suo inizio, negli anni '70, dei quali lui mantiene la spinta
culturale della fase costituente. Fino ad oggi ha infatti navigato all'interno
dei fenomeni dell'arte rendendosi catalizzatore di rilevanti eventi musicali,
di performances e di disparati interventi legati alla comunicazione. Il
suo lavoro pittorico, sicuramente centrale rispetto a tutto il resto, è
da considerarsi come il risultato di un tubo catodico che trasmette senza
interruzioni e censure le sembianze del suo immaginario affettivo. Languido,
feticistico, erotico, sacrale o trasgressivo che sia, è pur sempre
il risultato oggettivo, la forma svelata, di una terapia che lui pratica
quotidianamente, a livello spontaneo, e che gli permette di eludere i ricatti
affettivi che in vario modo i poteri costituiti cercano di esercitare nei
confronti degli individui e della società. Il suo fare arte si potrebbe
definire una specie di vaccino che genera anticorpi, una protezione per
salvaguardare la sfera delle intenzioni e dei desideri, l'immaginario che
alimenta la spinta alla trasformazione perpetua. E se in questi anni la
tendenza dell'arte è di mostrare nitidezza e perfezione occultando
la brutalità del contenuto dentro una bolla di cristallo, Claudio
Di Carlo sicuramente se ne discosta dal momento che il suo stile e la sua
poetica coincidono non essendo sottoposti a scarti.
La seduzione esercitata dalle sue immagini di donna trae origine sia
dal gesto rappresentato che dal suo gesto pittorico, essenzialmente paranoico,
incatenato al particolare, alla sfumatura, alla calda morbidezza buttata
là con forte senso autoironico. Ed è seguendo questa linea
che risulta estremamente interessante sottolineare il taglio che dà
all'immagine. Si tratta di uno zoom, di un elemento in più che fa
la differenza e che, fin dall'inizio, ha caratterizzato le sue opere come
se si trattasse di "inquadrature rubate" ad una sequenza. Un forte legame
con il cinema, dunque, proietta le sue tradizionali pitture su tela all'interno
di un linguaggio della comunicazione che appartiene esclusivamente all'immagine
in movimento. Il dipinto si trasforma in frame e, nella sequenzialità
dei singoli lavori, è possibile percepire il prima e il dopo,
immaginare un racconto che rende l'occhio che inquadra e sceglie il vero
protagonista dell'opera. Le sue donne, ma anche il famosissimo e fallico
"Ringo", sono gli oggetti del suo percorrere il mondo in senso affettivo.
Per questo guardare un suo lavoro, in un certo senso, corrisponde ad ascoltare
per la millesima volta quelle struggenti canzoni dei cantautori degli anni
'70 che, appunto, ci facevano stringere lo stomaco, perché riuscivano
a raccontare le singole, e se vogliamo insulse, piccole storie private
di ciascuno di noi. Ma si tratta di storie che hanno comunque un ritmo
differente. Il ritmo delle immagini è infatti diverso da quello
della musica. Il ritmo dato dalle inquadrature particolari di Claudio Di
Carlo è infatti quello che successivamente ritroviamo nel mondo
della pubblicità e anche in altri artisti. Sinceramente mi
piace pensare che si tratti della prerogativa estetica dei tempi e non
di un vero e proprio plagio, perché in tutte le epoche le idee e
i contenuti sono valori che appartengono, seppure a livello inconscio,
alla società e avere un seguito numericamente importante corrisponde,
per l'artista, ad aver colto nel segno. Come anche in occasione di questa
mostra, che partendo da Roma intraprenderà strade differenti, l'artista
riesce a comparire come regista di una serie di performances, apparentemente
improvvisate e confuse tra il pubblico, che spingono lo spettatore a chiedersi
cosa c'è dietro all'immagine patinata dei dipinti. Tra gli altri
interventi c'è quello più visibile e sconcertante di un'attrice
bravissima, Miriam Abutori, che rimane immobile e nuda, pallida ed emaciata,
per tutta la durata del vernissage. Distesa su un divano di velluto rosso,
carne bianca e trasparente, sguardo fisso, unghie colorate di verde, sta
a rappresentare una specie di monito. Guardando lei mi viene in mente il
film di Bergman "L'uovo del Serpente", capolavoro di sceneggiatura a singhiozzo,
o
"L'Angelo Azzurro" di Heinrich Mann dove l'amalgama del bene e del
male scorre indistinta al i là delle coscienze e delle premonizioni
individuali.
Roma, Gennaio 2003
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